Un articolo de ilSole24Ore del 29 settembre scorso raccontava di come l’Unione Internazionale del Notariato sia impegnata nella definizione di una società in cui l’interesse economico sia accompagnato, con pari dignità, da obiettivi di social responsability.
Giusto qualche settimana prima Business Roundtable, l’associazione che riunisce i CEO delle più importanti società americane ha lanciato un proprio manifesto in cui si evidenzia l’importanza di promuovere un’economia di servizio a fianco di quella di profitto. Parole sante anche se soffermarsi sul fatto che si tratti anche di aziende che dichiarano i propri utili in paradisi fiscali per pagare meno tasse un po’ ‘sporca’ queste ideali intenzioni.
Quel che rimane, però, è l’idea che qualcosa stia cambiando e non da oggi.
Qualcosa di simile a quello che stanno cercando i notai di mezzo mondo è già stato introdotto nel nostro ordinamento nel 2016. L’Italia, infatti, è il primo stato a dotarsi di una normativa nata e cresciuta sull’onda di quella presente in alcuni stati USA. È stato il primo paese che ha letto i segnali di cambiamento che, come abbiamo visto, stanno venendo alla luce.Le società, tradizionalmente, hanno avuto il proprio scopo nella remunerazione del capitale, nell’utile da distribuire, nella massimizzazione del profitto: lo shareholder value, la soddisfazione dei soci. Un concetto che fu alla base, nel 1919, della causa tra i fratelli Dodge e la Ford Motor Company: a business corporation is organized and carried on primarily for the profit of the stockholders. Prima gli azionisti, direbbe Trump.
La direzione però è un’altra. Il capitalismo si allontana dal capitale e cresce l’importanza degli aspetti immateriali, degli intangibili. E allora la reputazione diventa un asset fondamentale come gli investimenti in idee, le relazioni, il brand. La barriera che separa concetti come profit e no profit è sempre più sottile e queste stesse definizioni perdono senso come destra e sinistra in un parlamento dei giorni nostri. Niente di diverso, in fondo a quello che già diceva Olivetti più di 50 anni fa: La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura.
Con le società benefit tutto questo si istituzionalizza: l’interesse si moltiplica a vantaggio di altri beneficiari, l’egoismo utilitaristico lascia il passo all’erotismo del dono, del beneficio comune e il fine si amplia e trasforma nello stakeholder value.
Quello che prima era un atto di occasionale munificenza e soggetto al vincolo di una approvazione assembleare diventa parte integrante del processo aziendale di formazione del valore, ciò che era sporadico si ritrova sistemico, quello che spesso era casuale diventa una prassi non solo possibile ma addirittura obbligatoria.
Quello che era un atteggiamento soggettivo, quindi, è ora parte dell’oggetto sociale, attività sottoposta al controllo non più incentrato sul perché ma sul come.
Le norme sono poche e chiare. Nessun regime speciale ma semplicemente società che si danno un obiettivo più grande e che a fronte del proprio mestiere affiancano un intento responsabile. Un oggetto aggiuntivo che si correla con il core business e ne diventa parte integrante. E se la ricerca dell’Unione Internazionale del Notariato a cui abbiamo accennato all’inizio avrà corso avrà un rango paritario all’interno dello statuto e della attività sociale.
La novità della norma, l’assenza o quasi di prassi, la scarsità di informazioni rendono aleatorio il campo in cui si corre e non rendono ancora certo il suo percorso. Servono prese di posizione chiare da parte dell’Amministrazione Finanziaria, certezze che liberino il passo, permettano di affrontare le curve con decisione e sicurezza.
Servirà osare ancora di più, immaginare nuovi limiti e nuove possibilità. Un lavoro sulla normativa fiscale applicabile alle società benefit potrebbe davvero segnare un cambio di passo. Per le società benefit non sono state introdotte deroghe né al diritto societario né, men che meno, a quello tributario. Non ci sono agevolazioni, scorciatoie, assimilazioni ad altre diverse e favorevolmente normate forme societarie come, ad esempio, l’impresa sociale. L’impresa benefit è impresa profit e nulla cambia rispetto al passato. Ma se davvero puntiamo a raggiungere il nostro vero traguardo, a percorrere i nostri ultimi metri più in fretta forse sarebbe il caso di pensarci seriamente.
La società benefit è un nuovo modello di business, risponde appieno alla corporate social responsability, è un’idea moderna che coniuga interesse privato e restituzione. Ipotizzare l’applicazione di una fiscalità favorevole, ad esempio, sugli utili prodotti e non distribuiti così come per l’IVA sugli acquisti legati alle attività ‘benefit’ fungerebbe da integratore allo sviluppo di uno strumento prezioso che, se declinato in ambito culturale si avvicinerebbe di molto al traguardo dell’impresa culturale da più parti reclamato senza ancora uno sviluppo certo e prevedibile.