La domanda potrebbe esser vista come banale, e la risposta scontata: molto.
Ma siamo sicuri di vedere tutta la tecnologia che c’è nell’ecosistema di un’impresa?
Mi permetto di fare questa domanda perché, nella mia esperienza di legale, mi sono trovato spesso a dover regolare tematiche puramente giuridiche relative ad ambienti informatici (mi occupo di tecnologie, per chi non lo sapesse), e ad incontrare un certo stupore del mio cliente di turno che si trovava a “scoprire” pepite preziose, senza nemmeno averle cercate.
Quindi, diciamo, il flusso (per restare in tema informatico) nella mia esperienza è sempre stato il seguente: percorso di compliance legale la premessa, scoperta di asset la conseguenza.
Mi è capitato infatti di far capire ad un cliente che la sua newsletter non era una semplice email massiva da mandare ad un migliaio di persone con qualche contenuto rapidamente (talvolta sbrigativamente) inserito, ma – essendo tutti i destinatari addetti ai lavori di un settore merceologico preciso – che essa era un database di contatti particolarmente appetibili per chi volesse rivolgersi ad operatori del settore. Così come ho in un altro caso “demolito” il valore di un sito per cui era in corso una dew diligence sulla base del fatto che la lista di contatti non fosse a norma.
Ma non solo: ho posto spesso questa domanda: “quanto vale un profilo social con un certo seguito?”
Per qualcuno poco, per qualcuno nulla. Per altri invece molto: non è un caso che un mio cliente abbia chiuso una trattativa di risarcimento pagando in post.
Ma ancora: quanto vale un database che possa esser interrogato da una AI? Perché la AI ha bisogno di dati, e perché la AI dopo averli “fagocitati” evolve, un po’ come un animale che mangiando cibo di qualità cresce forte e sano. Ma se l’animale di Caio cresce, e mangia solo cibo dato da Tizio, quando sarà grande di chi sarà l’animale? Di Tizio che lo ha nutrito sempre, o di Caio?
La sfida che quindi nasce dalle mie consulenze è talvolta, non sempre, quella di individuare nuovi asset, fino a ieri inimmaginabili.
Perdoni il lettore se cito una mia esperienza, questa volta non nel campo legal: con degli amici sto sviluppando un social. Una cosa semplice: due persone litigano, si sfidano sulla piattaforma che nomina undici giurati. Tutti, parti e giurati, discutono secondo buon senso, non secondo legge o diritto, in una chat (si immagini qualcosa simile ad un gruppo Whatsapp). Alla fine delle ventiquattro ore i giurati votano, e stabiliscono se la ragione sia dalla parte di optimus o perfectus (i nomignoli con cui sempre compaiono le parti). Ora, una delle prime domande che – al netto delle revisioni legali operate dal sottoscritto – il gruppo di lavoro si è posto è stata: come potrà incassare il servizio?
Le prime risposte sono state logiche, ed anche obbligate: la sempre verde cessione dei dati per fini di marketing, la comparsa di banner durante l’uso. Sono entrate che, per quanto scontate, producono numeri. Ma hanno un presupposto: che tutto sia a norma, altrimenti cedere spazi o dati diventa un costo, non un ricavo.
Ma non è questo il punto: abbiamo cercato di guardare la nostra applicazione nel lungo periodo. Forse in un domani non così lontano in cui i dispositivi IOT finiranno per fare la spesa al posto nostro le pubblicità finiranno inevitabilmente per perdere poco per volta il loro valore, a meno che non ci si inventi – tanto per restare in tema di business del futuro – la pubblicità alle cose per convincere un frigorifero intelligente a fare la spesa in un posto piuttosto che in un altro (ebbene sì, anche i frigoriferi – se non vogliono entrare in conflitto con l’antitrust – dovranno esser liberi di scegliere dove fare la spesa). Ma ci siamo dovuti sforzare a pensare qualcosa che vada oltre le pubblicità. Quel che stiamo producendo è infatti una “scommessa di valore”, come mi piace definirla: collezionare casi di litigi, opinioni di persone costituisce una banca dati che svela cosa le persone pensano, cosa scelgono. In poche parole costituisce una baca di dati etici, una fonte che un domani – quando le AI dovranno prendere decisioni al posto nostro e avranno bisogno di attingere anche a statistiche “morali” – forse sarà rara quanto preziosa. Forse, perché buona parte degli asset che si vanno a scovare sono ipotesi, talvolta probabili, talvolta molto vicine alla scommessa. Ma scommettere sul futuro è una sfida che i professionisti di oggi non possono schivare.
Sono problematiche, quelle sopra accennate, che spesso – come detto sopra – nella mia esperienza sono nate come “legali”, ma si sono rivelate presto come di rilevanza economico aziendale.
Quindi, mi chiedo: è solo il legale che deve consigliare ad un servizio informatico di mettersi a norma?
O non sarebbe forse il caso che proprio il commercialista, nella sua veste di consulente aziendale capace di veder in prospettiva, suggerisca di metter a norma quelli che non deve vedere come noiosi capitoli legali, ma come asset che – se appunto regolarizzati – passano dal valore attuale (zero perché non considerati, o addirittura meno il valore della potenziale sanzione) ad un valore notevole, attuale, e spesso replicabile?
In fondo, a quanto consta a chi scrive, pare che il curatore del fallimento di una importante catena di negozi non abbia cercato di svendere il mobilio dismesso, ma che abbia messo subito a frutto i dati delle tessere punti.