In che modo la trasformazione digitale impatta sugli stili di leadership e sui processi organizzativi? Difficile dare una risposta univoca, ma sicuramente in maniera dirompente: questa l’opinione di Giuseppe Stigliano, amministratore delegato di Wunderman Thomson Italia, una delle più antiche agenzie pubblicitarie al mondo, autore di due libri che molto hanno a che fare con l’innovazione (Retail 4.0, uscito nel 2018 e On life fashion, in commercio da poche settimane). La prima riflessione di Stigliano è relativa alle caratteristiche stesse dell’innovazione digitale: “L’avvento del digitale è un po’ come quello dell’elettricità: circa 150 anni fa è arrivata questa tecnologia e da allora tanti bisogni, desideri e aspettative sono stati soddisfatti in maniera diversa rispetto a prima, cambiando completamente il paradigma. Quello che è stato ieri l’elettricità, oggi è il digitale”.
La difficoltà di cambiare la cultura aziendale
Le aziende che non nascono native digitali, dunque, sono un po’ come i produttori di sale 150 anni fa: chi faceva questo tipo di commercio poteva contare su un business floridissimo, perché si poteva utilizzare il sale per conservare il cibo. L’arrivo dell’elettricità e della refrigerazione ha sconvolto questo paradigma e così oggi stanno facendo le innovazioni tecnologiche: “Per me la trasformazione digitale è proprio una trasformazione e non un cambiamento. Questo significa che è un processo culturale e non situazionale: e come tutte le trasformazioni culturali, richiede tempo. Richiede di cambiare la postura mentale, gusti, processi e formare le risorse. Tutte cose che chi oggi parte da zero (così come i produttori di frigoriferi di 150 anni fa) non deve fare, mettendo una notevole pressione a chi deve rincorrere”.
Cambiare una cultura aziendale è però tutt’altro che semplice: “Quando si decide di cambiare occorre intervenire su anni di stratificazioni aziendali e di processi creati per ridurre il rischio e aumentare l’efficienza. Per questo sono sempre molto cauto con le aziende che non riescono a cambiare la propria mentalità: non ci riescono perché per decenni è stato detto a loro di fare esattamente il contrario”.
L’accettazione del cambiamento
Anche perché abbracciare per intero la rivoluzione della Digital Transformation comporta un passaggio non da poco per le aziende e i team: “L’aspetto più importante da accettare è che, quali che siano le competenze e il know how posseduti, il tasso di obsolescenza di tutto ciò che conosciamo è elevatissimo. L’unica costante è il cambiamento. Dunque, la dote numero uno deve essere la serena accettazione della costante del cambiamento e che questa obsolescenza sarà aumentata e accelerata nel prossimo futuro. Le previsioni ci dicono che il 75% delle aziende che sono oggi nella top 500 di Standard & Poor non saranno le stesse nel 2027”. Vero è che anche nel passato le aziende erano sottoposte a cambiamenti, ad esempio dei materiali utilizzati o dei mercati di sbocco, ma non certamente con l’attuale tasso di rapidità. Anzi, adesso i cambiamenti sono la conditio sine qua non per rimanere competitivi. Tanto che, ormai, è difficile mantenere un vero e proprio vantaggio competitivo sul mercato.
Quanto si può spingere l’approccio imprenditoriale
Che cosa comporta tutto questo per la leadership? “Si può e si deve cercare di dare buon esempio, trasparenza e coerenza. C’è però un grande tema poco affrontato al momento: abbiamo chiare le competenze digitali che dobbiamo sviluppare, in particolare dopo l’ultimo anno e mezzo di pandemia. Ci sono anche evidenti quali sono quelle attitudini che resteranno comunque umane. Quello che non è chiaro è: come riusciamo a far passare queste competenze umane attraverso uno schermo? Messa in altri termini: come fa un leader a essere empatico, a far passare un messaggio con la stessa efficacia di prima, considerato che non possiamo percepire le reazioni dell’altro? Non siamo infatti preparati per questo tipo di interazioni, per quanto si possa essere competenti”.
Una richiesta che spesso viene fatta dai leader ai propri dipendenti è quella di adottare un approccio imprenditoriale, ma Stigliano non è molto convinto dell’opportunità di intraprendere un percorso di questo tipo: “Io ho iniziato la mia carriera da imprenditore, aprendo una mia agenzia pubblicitaria, con relative gioie e dolori del mestiere. Quello che posso dire è che l’atteggiamento/attitudine imprenditoriale è una cosa rara, essere imprenditori vuol dire avere un elevata propensione al rischio, ma spesso anche avere una situazione di partenza che ti consente di sposare anche questo approccio. In America si parla tanto di entrepreneur in house, con cui in pratica si chiede ai dipendenti di sposare i progetti aziendali come se fossero i propri, mettendoci anche dei propri contributi personali. Credo però che in un momento storico come quello che stiamo vivendo sia importante per i leader d’impresa assumere responsabilità e offrire rassicurazioni piuttosto che limitarsi a chiedere a tutti i collaboratori un contributo attivo proprio il caso di calcare la mano su questo aspetto, anche perché in questa fase non tutti hanno la voglia di essere in prima linea”.
Più leader che manager
Che leader servono allora in questi tempi? “C’è un libro che consiglio, First 90 days, dedicato ai transition leader, che propone un framework che si chiama Stars, dal nome delle iniziali che lo caratterizzano: startup, turnaround, accelerate growth, realigniment, sustain success. Si tratta di 5 stadi diversi che le aziende vivono nella loro crescita e che richiederebbero personalità diverse alla guida. È infatti difficile che una persona abbia le doti per essere un leder adatto sia nella fase di startup che di sustain success. Questo per dire che, già prima della pandemia, era difficile dare una risposta univoca a questa domanda. Sicuramente, però, è che esiste una enorme differenza tra leader e manager: il leader ha a che fare con lo stabilire una direzione in una situazione instabile e convincere gli altri a seguirlo. La direzione stabilita dai leader ha però bisogno di manager che riducano arbitrarietà e rendano i processi organizzativi efficienti. In un momento storico come questo non possiamo avere a che fare solo con in manager, che scrivono processi per rendere efficienti traiettorie progettate da qualcun altro. Piuttosto, abbiamo bisogno di leader, di persone che immaginino futuri possibili e che abbiano la capacità di supportare con evidenza e coinvolgere le persone. Anche perché il rischio maggiore è quello di continuare a fare le cose come si sono sempre fatte”. Un esempio che si affaccia immediatamente è quello di Satya Nadella, che è stato capace di operare una trasformazione incredibile in una multinazionale delle dimensioni come Microsoft. “Non a caso Nadella – ricorda Stigliano – non ama definirsi come CEO, quando piuttosto come Chief Cultural Officer, ossia come capo della cultura aziendale, a testimonianza della svolta che c’è stata”.